Intervallo, vacanza e quiete

La volta scorsa parlavamo di “pausa” e scoprivamo che il significato originario era quello di “sosta, interruzione momentanea” (spesso di una spedizione militare o di una processione). Un termine analogo è intervallo che rimanda al latino “inter + vallum”: il “vallum” è, appunto, un termine militare che designava la linea di fortificazione consistente in un terrapieno sormontato da uno steccato (e quindi “bastione”, “trincea”, “barriera protettiva”, “difesa”). “Intervallum” è in latino sia  l’intervallo di spazio (e quindi “distanza”) sia quello di tempo (cioè proprio “pausa, interruzione”). Chi ha qualche reminiscenza del latino liceale, potrà forse ricordare gli “intervalla insaniae”, cioè i momenti di lucidità durante i quali, secondo la tendenziosa notizia di S.Gerolamo, Lucrezio, impazzito per amore (anzi, più precisamente per un “poculum amatorium”, cioè per “un filtro d’amore”), compose quello straordinario capolavoro che è il De Rerum Natura.

Anche il termine vacanza rimanda al latino, al verbo “vaco” , nel suo significato di “essere privo di occupazioni” , “essere libero da impegni”: difatti, il sostantivo “vacatio” originariamente indicava l’ “esenzione” (dal servizio militare o da obblighi vari). Il termine latino per indicare la nostra “vacanza”, o meglio il nostro “tempo libero”, era “otium”, che non potremmo assolutamente tradurre col calco italiano “ozio”, in quanto tale termine nella nostra lingua ha assunto un valore chiaramente negativo (l’ozio abbruttisce, è padre dei vizi, ecc…). Non così per l’ “otium” che è il tempo che si dedicava a sé, al proprio “privato”, diremmo oggi, e che bilanciava ed integrava il “negotium”, cioè il tempo dell’attività pubblica: autorità indiscussa per comprendere bene il rapporto tra i due termini (e soprattutto il complesso di valori ad essi collegati) è Cicerone.

Ultimo termine della rassegna quiete: scontato il collegamento col latino “quiesco”, “riposo, resto tranquillo”, il vocabolo da “riposo, sonno, pace, calma” passa a significare la “serenità interiore”, l’ “inattività” e, in senso traslato, la “quiete eterna” , la “morte”. Nella poesia italiana è un termine che non può non rammentare Foscolo: “e prego anch’io nel tuo porto quïete” (con la stupenda dieresi sulla i) di In morte al fratello Giovanni e, soprattutto, “Forse perché della fatal quïete” (sempre con l’inconfondibile marca della dieresi, a prolungare fonicamente e semanticamente l’intensità del vocabolo) di “Alla sera”: letture liceali anche queste, che però, forse, potrebbero trovare un posto significativo nel nostro tempo di adulti.

Rileggere ciò che si crede di conoscere e che non si legge più da tempo è spesso più importante che leggere per la prima volta: ciò potrebbe portarci ad affrontare il discorso sulla “ripetizione”, che rimandiamo alla prossima volta.

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