Le antiche tragedie greche

Quando alle storie degli dei si aggiungono le vicende umane - e vicende non certo di personaggi qualsiasi! Qui si parla di eroi e di eroine, di re e di regine, di predestinati dal destino a fare grandi cose, nel bene e nel male... - la miscela non può che essere esplosiva. E proprio questi ingredienti, le passioni umane e divine, stanno alla base di storie che hanno sfidato il tempo e che ancora oggi sono in grado di parlarci con la stessa forza che avevano secoli e secoli fa: le complicate trame delle antiche tragedie greche.

La tragedia greca, che vide il massimo del suo splendore nel V secolo a.C. grazie a tre grandi drammaturghi (Eschilo, Sofocle, Euripide), attingeva a piene mani dal mito, ma lo faceva vivere dentro a personaggi estremamente umani, veri e vivi: personaggi che dialogavano, che riflettevano, che agivano con la testa e il cuore di persone. Lo scopo della tragedia (secondo quel gran saggio che fu Aristotele) era di turbare così tanto l'animo di chi vi assisteva, di portarlo a un tale livello di terrore e pietà, da condurlo infine alla catarsi, cioè alla purificazione: non dobbiamo quindi stupirci di fronte al sangue, al dolore, all'orrore presenti nelle tragedie; proprio queste violente passioni hanno la forza di diventare simboli, sempre validi, della storia umana.

Uno tra i più simbolici fra i personaggi di queste antiche storie è sicuramente Edipo: tutti lo conoscono grazie al complesso di Edipo, che in psicoanalisi vuol dire, in poche parole, un attaccamento eccessivo verso la madre da parte del figlio maschio, e un rapporto conflittuale con il padre. Vediamo qual è la storia: tutto comincia in una situazione apparentemente serena; Edipo ha risolto i complicati enigmi della Sfinge e regna su Tebe insieme a Giocasta, vedova del re Laio; i due hanno quattro figli, due maschi, Eteocle e Polinice, e due femmine, Antigone e Ismene. La città di Tebe però è devastata da una terribile pestilenza, e l'oracolo di Delfi ha consigliato, per debellarla, di trovare l'assassino del re Laio. Grazie all'indovino Tiresia e ai racconti di Giocasta, si scopre la tremenda verità: Laio e Giocasta avevano affidato al pastore Polibo il loro figlioletto appena nato, perché venisse ucciso; una profezia infatti aveva detto loro che il bimbo avrebbe ucciso il padre. Ma il piccolo non era stato ucciso e, una volta cresciuto, durante un litigio scoppiato lungo la strada per Tebe, aveva ucciso senza saperlo proprio suo padre Laio. Giocasta, inorridita di fronte alla notizia, si impicca, ed Edipo si acceca per non dover più vedere il sole, testimone del suo delitto, e se ne va da Tebe.

E non si può certo dire che una sorte migliore sia toccata ai figli: Eteocle e Polinice si fanno guerra fin dall'inizio, fino a uccidersi a vicenda. Creonte, il nuovo re di Tebe, ordina che Polinice resti insepolto: ma il suo ordine nulla può contro la tenace volontà di Antigone, che trasgredisce e seppellisce il fratello. Creonte la fa rinchiudere in una caverna, ma con lei si fa rinchiudere, a insaputa del padre, anche Emone, promesso sposo di Antigone e figlio di Creonte. Il solito indovino Tiresia ammonisce duramente Creonte, finché questo si convince ad aprire l'antro. Ma è troppo tardi: Antigone si è appena impiccata ed Emone si uccide sotto gli occhi del padre. E a questo punto anche sua madre, Euridice, si toglie la vita.

Quanta sfortuna nella storia di Edipo... ma non è solo sfortuna, è una punizione divina; Laio infatti aveva ricevuto dall'oracolo di Delfi il divieto di avere figli, perché doveva espiare la morte che il giovane Crisippo aveva cercato per sfuggire al suo amore: l'intera discendenza paga la disubbidienza di Laio. Il riscatto, almeno morale, della famiglia, è rappresentato sicuramente da Antigone: fiera, coraggiosa e insieme dolcissima e piena di umana pietà, non ha paura di sfidare il potere pur di consegnare degnamente agli dei il corpo del fratello; e soltanto all'ultimo si salva un po' anche la figura di Ismene: troppo pavida per violare una legge, rifiuta di aiutare Antigone nella pericolosa impresa, ma quando si rende conto della condanna a morte della sorella, si autoaccusa e chiede di morire con lei, riuscendo con il suo sincero e profondo dolore a commuovere, anche solo per un attimo, il crudele Creonte. Un riscatto tutto al femminile, che mette di fronte alla ferrea logica della ragion di stato un'altra logica, forse meno dura ma altrettanto potente: quella dell'amore.

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